Still Life di Uberto Pasolini-Recensione


Uberto Pasolini torna a occuparsi di una storia ai margini e conquista nuovamente la giuria veneziana, questa volta nella sezione “Orizzonti”, in cui è stato inopinatamente inserito, dove ha vinto il premio per la Migliore Regia. Protagonista è un impiegato comunale addetto alla sepoltura delle persone decedute i cui parenti sono introvabili. L’uomo svolge il suo lavoro con grande dedizione cercando soprattutto di recuperare, nel saluto estremo, quella dignità che magari in vita le persone non sempre hanno avuto. Ecco quindi la ricerca dei parenti, la predisposizione degli elogi funebri, la scelta delle musiche più adatte, per una sorta di riscatto dei meno fortunati che passa attraverso un rito funebre accurato e decoroso. I suoi sforzi non sono però apprezzati dal suo superiore che decide di eliminare i rami secchi dell’amministrazione comunale licenziandolo.
Pasolini sceglie un approccio dove a dominare è la misura. Pone al centro del racconto un antieroe, dimostra di amarlo e cerca in tutti i modi di trasmettere la benevolenza che prova nei suoi confronti anche allo spettatore. Il risultato convince solo in parte. Se si apprezza l’originalità del soggetto e la sensibilità con cui il regista tratteggia personaggi e situazioni, bisogna però constatare che la sceneggiatura finisce per erigere un monumento al suo protagonista, di cui non possiamo che pensare bene perché solo aspetti positivi di lui ci vengono mostrati: sempre gentile, rispettoso, corretto, pacato, nemmeno un’ombra a scalfire un ritratto a senso unico che non riesce mai davvero a uscire dalla teoria e a risultare credibile, privo com’è di mezzetinte. Poi, la progressione funziona, l’apertura del protagonista nei confronti della vita e delle emozioni è all’insegna della sobrietà, ma pare tutto piuttosto costruito.Per tacere della conclusione melodrammatica in cui l’artificio esce allo scoperto mostrando il suo fine strappalacrime. Decisamente troppo forzata e gratuita per indurre a una commozione sincera. Tra l’altro anche piuttosto punitiva e in contraddizione con l’ariosità delle premesse: non appena ti apri alla vita ed esci dai ranghi in cui la paura ti ha confinato, la vita ti frega. Molto in parte il protagonista Eddie Marsan e deliziosa Joanne Froggett, la ragazza della porta accanto che tutti vorrebbero avere. Così come è impeccabile la confezione, dalla colonna sonora, come sempre fiorita, di Rachel Portman, alla fotografia in evoluzione cromatica di Stefano Falivene, desaturata all’inizio e con il progressivo inserimento dei colori a mano a mano che si risvegliano i sensi del protagonista. Ma dietro un’apparenza controllata, leggera e poetica si cela un film fasullo.

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